L’essenzialità del superfluo

Che cosa posso ricavare di utile dall’ambiente che mi circonda per soddisfare i miei bisogni? Dove devo scavare, quanto a fondo? Questo fenomeno misterioso che osservo potrà forse portarmi un personale beneficio? Posso usare questo oggetto come mio strumento? E questo mio simile che io vedo può essermi utile, quali sue qualità potrebbero servire al mio interesse? Cosa può darmi? Come posso sfruttare al meglio tutte queste cose, come posso strappare via da esse il più possibile, il prima possibile, perché sia mio, tutto mio, finché sono su questo pianeta?

Nella fiaba oscura che ci racconta la modernità, l’essere umano arriva in questo mondo come una creatura nuda, piena di un insaziabile e vorace desiderio. Da quando viene partorito, questo essere egoista e spaventoso comincia subito a nutrirsi, assorbire, prendere da tutto ciò che si trova nel suo raggio d’azione per acquietare una fame pressante e interminabile. La sua mente lavora dalla culla alla tomba nel martellante e infinito progetto di colmare un’incolmabile e profondissima incompletezza.
Sia per il bisogno fisico, sia per il bisogno delle sensazioni, gli esseri umani vivono da parassiti sulla superficie del proprio pianeta. Ogni cosa e ogni creatura, persino i propri genitori e i propri fratelli, sono per essi degli strumenti. Quando l’occidente si è gradualmente accorto di questa realtà, finalmente così pratica e concreta, così dritta al punto, sgomberando la vista una volta per tutte da ogni inutile orpello metafisico, ha potuto finalmente intraprendere con piena lucidità e senza ulteriori indugi il cammino rettilineo verso i propri scopi materiali. Una traiettoria rappresentabile con un grafico che punta inesorabilmente verso l’alto: fino all’acquietamento del bisogno incolmabile, fino al prosciugamento dell’intero universo in cui questo pericoloso parassita è venuto a trovarsi.

Innanzitutto, il metodo scientifico ci permette di ridurre la natura a un reticolo freddo e geometrico di leggi che possiamo calcolare perfettamente, così da poter prevedere con esattezza ogni fenomeno e controllarlo. Il progresso tecnologico ricava da questi meccanismi macchine sempre più veloci e precise, che producono in serie, estraendolo dal mondo, tutto ciò di cui abbiamo bisogno.
Se gli esseri umani sono essenzialmente egoisti, allora la convivenza è un contratto commerciale, in cui ciascuno, in base alla propria forza, cede qualcosa all’altro per poter avere qualcos’altro in cambio: la legge degli stati – e quella internazionale – organizza così gli equilibri e gli squilibri di una società di produttori e consumatori in cui il sistema economico possa perpetuarsi, e i suoi prodotti in serie e i relativi compensi possano essere regolarmente ripartiti.
Come la legge scientifica incasella la natura in astratti e rigorosi modelli matematici, la legge umana costringe le società entro modelli di comportamento e convivenza sempre più precisi e penetranti, in una comune logica di prevedibilità, controllo e utilizzo.
Così, in questa brutta fiaba moderna, tutto è una macchina. La natura è una macchina. Il lavoro viene svolto da macchine. Le società sono macchine. Le macchine si insinuano in ogni anfratto della vita delle persone, per automatizzarla e renderla più veloce ed efficiente. E, all’origine di tutto questo, gli esseri umani pensano di essere macchine, e ragionano come macchine, nel loro incessante e solitario calcolo egoistico per avere il più possibile al prezzo più conveniente, e per prenderselo da tutto quello che ci circonda, persone e cose. Quando è chiaro quali sono i nostri bisogni ed è assodato che il nostro obiettivo è soddisfarli, la nostra intera esistenza si riduce a semplici algoritmi matematici. Al nucleo di questa esistenza, incombente come un avvoltoio, visto con la coda dell’occhio e ignorato finché si può nella giostra colorata della modernità, ma sempre più urgente, sempre più pressante, c’è il nulla.

Per comprendere la mansuetudine con cui oggi le masse si lasciano condurre in spazi di libertà sempre più angusti, e accettano di muoversi, nei propri fine settimana al centro commerciale o in fila alle poste, entro canali sempre più ristretti, di essere sempre più ordinati e controllati, di intendere la libertà in un certo modo piuttosto che in un altro, bisogna soltanto chiedersi che cosa oggi questi esseri umani pensano di sé stessi, cosa pensano di poter osare pretendere dalla vita, ora che gli è stata raccontata la fiaba della modernità.

Che cosa ci interessa veramente ottenere? Questo sistema può procurarcelo?

Questa corsa impazzita verso il vuoto obbedisce alle regole dell’egoismo, che sono regole rigorosamente logiche, matematiche. Si deve domandarsi se gli esseri umani obbediscono davvero a questa necessità meccanica che sembra ormai dominare e impoverire l’intero universo, o se è rimasta una fessura attraverso cui sfuggirle, ed essere liberi.
Forse, bisogna tornare a leggere storie più antiche, in cui l’essere umano non è dipinto come una creatura mostruosa, né come un parassita. In queste storie, siamo creature capaci di andare oltre la logica, invece che assecondarla. Lì non dominiamo la natura, ma la osserviamo, e ci meravigliamo per la sua inesauribile imprevedibilità e per il suo mistero. Avvertiamo equilibri e vogliamo farne parte. Lavoriamo non soltanto per produrre delle cose da usare, ma anche per dire con le nostre creazioni che cos’è la bellezza. Giochiamo. Crediamo. Inventiamo infinite strade alternative quando ce ne è stata tracciata soltanto una. Accendiamo candele per vedere nel buio. Soprattutto, siamo capaci di dare senza ricevere.
Se sappiamo coltivare e tenere viva dentro di noi questa libertà, se sappiamo far fiorire dentro di noi tutto quello che oggi ci viene detto essere illogico e superfluo, tutto quello che ‘non serve a niente’, nessuna macchina potrà mai ingabbiarci, e il mondo, anche adesso che sembra ormai essere sul punto di esaurirsi, potrà rigenerarsi all’infinito.

Luca

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